Torna all'homepage
Spiritualità
 
 
CARTA DEI DIRITTI
LO STATUTO
MODULO ISCRIZIONE
SEDI REGIONALI




Scrivici

28 October, 2011

Perché i valori irrinunciabili della Chiesa
di -


ROMA, lunedì, 24 ottobre 2011 (ZENIT.org) - In riferimento al discorso del card. Angelo Bagnasco al Forum dei cattolici in politica a Todi (Perugia) il 17 ottobre scorso, un amico mi telefona per chiedermi di spiegare quali sono e perché la Chiesa insiste nel proclamare i suoi “valori irrinunziabili”. Ecco in breve.
Per la Chiesa, i “valori irrinunciabili” (o “non negoziabili”) sono tre:
1) la difesa della vita dalla nascita alla morte, contro l’aborto, l’eutanasia e la manipolazione del gene umano;

2) la difesa del matrimonio monogamico tra uomo e donna, cioè la condanna del riconoscimento giuridico dell’unione tra omosessuali e delle coppie di conviventi;

3) la difesa della famiglia comporta il terzo valore irrinunciabile: la difesa della libertà di educazione, cioè il diritto della famiglia di scegliere come educare i propri figli, quindi la parità tra scuola pubblica e scuola privata paritaria, perché il compito di educare i figli spetta anzitutto ai genitori, non allo stato.
Perché questi valori irrinunciabili? Una delle grandi novità della Caritas in Veritate (2009) di Benedetto XVI è questa: per la prima volta in un’enciclica sociale, la CV, presenta il diritto alla vita come valore prioritario dello sviluppo “plenario” (cioè non solo economico) di ogni popolo e dell’umanità (n. 28). La “questione antropologica”, su cui tanto insistono la Santa Sede e la CEI, diventa a pieno titolo “questione sociale” (nn. 28, 44, 75). La crisi dell’Occidente è una “crisi antropologica”: cioè si perde il concetto di uomo creato da Dio, si vuole manipolare il Dna dell’uomo, si vuole creare l’uomo sano e senza difetti fisici, si distrugge il matrimonio e la famiglia monogamica, eccetera. Tutto questo, anche se molti non lo sanno o non ci credono, porta alla barbarie. L’uomo padrone di se stesso, l’uomo padrone della vita e della morte è l’anticamera per nuovi Auschwitz e nuovi Khmer rossi, che possono nascere da questa cultura orientata a produrre la morte.
La Chiesa condanna il controllo delle nascite, l’aborto, le sterilizzazioni, l’eutanasia, le manipolazioni dell’identità umana e la selezione eugenetica non solo per la loro intrinseca immoralità, ma anche perché lacerano e degradano il tessuto sociale, corrodono la famiglia e rendono difficile l'accoglienza dei più deboli e innocenti: “Nei paesi economicamente sviluppati - scrive Benedetto XVI (CV 28) - le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi. (…) L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo (…)”. L’enciclica spiega che, per lo sviluppo dell’economia e della società, occorre impostare programmi di sviluppo non di tipo utilitaristico e individualistico, ma che tengano “sistematicamente conto della dignità della donna, della procreazione, della famiglia e dei diritti del concepito”.
Dalla Humanae Vitae di Paolo VI (1968) ad oggi, spesso l’insistenza del Papa e dei vescovi su questi concetti non è compresa nemmeno dai cattolici, una parte dei quali pensano che la difesa della vita e della famiglia passa in secondo piano di fronte alle drammatiche urgenze della fame, della miseria, delle ingiustizie a livello mondiale e nazionale. Non capiscono il valore profetico di quanto dicono il Papa e i vescovi, che denunziano le conseguenze nefaste di certi orientamenti culturali e legislativi anche per la soluzione dei problemi sociali.
Se nella cultura comune e nelle legislazioni nazionali, come anche negli organismi dell’Onu e della Comunità Europea, prevale l’egoismo dell’individuo, com’è possibile pensare che poi, nell’accoglienza del più povero e del diverso, quest’uomo egoista diventi altruista? Tra opere sociali e difesa della vita non esiste alcuna contraddizione, ma anzi c’è un’integrazione vicendevole, si richiamano a vicenda, l’una non regge senza l’altra. La protesta per la fame nel mondo e per l’aborto hanno eguale significato e valore di difesa della vita. Ma i No Global - anche cattolici - hanno fatto molte proteste contro la fame, nessuna contro gli aborti, nessuna contro le coppie di fatto, i divorzi, le separazioni, i matrimoni tra gay! Accettiamo tranquillamente che in queste situazioni vinca l’egoismo umano e poi chiediamo che nella lotta contro la fame nel mondo prevalga l’altruismo. Dov’è la logica?

Nel suo discorso a Todi, il card. Bagnasco ha parlato dei “principi irrinunciabili” e ha detto: “Senza un reale rispetto di questi valori primi, che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nel momento di maggior fragilità. Ogni altro valore necessario al bene della persona e della società, infatti, germoglia e prende linfa dai primi, mentre, staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della “vita nuda”, i valori sociali inaridiscono.
“Ecco perché – continua il presidente della CEI - nel “corpus” del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva. Nella coscienza universale, sancita dalle Carte costituzionali, è espressa una acquisita sensibilità verso i più poveri e deboli della famiglia umana, e quindi è affermato il dovere di mettere in atto ogni efficace misura di difesa, sostegno e promozione…. Ma, ci chiediamo, chi è più debole e fragile, più povero, di coloro che neppure hanno voce per affermare il proprio diritto (alla vita)? Vittime invisibili, ma reali! La presa in carico dei più poveri e indifesi non esprime forse il grado più vero di civiltà di un corpo sociale e del suo ordinamento? E non modella la forma di pensare e di agire – il costume – di un popolo, il suo modo di rapportarsi nel proprio interno? Questo insieme di atteggiamenti e di comportamenti propri dei singoli, ma anche della società e dello Stato, manifesta il livello di umanità o, per contro, di cinismo paludato di un popolo, di una Nazione”.
Insomma, se si concepisce l’uomo in modo individualistico, come oggi si tende a fare, come si potrà costruire una comunità solidale dove si chiede il dono e il sacrificio di sé? Quando si sfascia la famiglia, si dissolve anche la società, come purtroppo stiamo sperimentando in Italia. Non si capisce come mai una verità così evidente è snobbata da chi appoggia altri tipi di famiglia (tra i gay ad esempio) e toglie ai coniugi lo stimolo di un patto d’amore da consacrare di fronte alla società col matrimonio, favorendo le coppie che si uniscono e si separano liberamente con il divorzio, le separazioni e ormai il “divorzio rapido” della Spagna di Zapatero che si realizza in 15 giorni. Leggi come queste favoriscono l’egoismo individuale e disgregano la società. Il credente in Cristo non può sostenerle.

17 October, 2011

Benedetto XVI: il mondo ha bisogno di nuovi evangelizzatori
di -


CITTA' DEL VATICANO, domenica, 16 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Migliaia di persone in festa hanno accolto questo sabato Papa Benedetto XVI nell'Aula Paolo VI in occasione del primo incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, sul tema: “Nuovi Evangelizzatori per la Nuova Evangelizzazione - La Parola di Dio cresce e si diffonde (At 12, 24)”.
Dopo una sessione mattutina di lavori nell’Aula nuova del Sinodo per i responsabili delle realtà ecclesiali per la Nuova Evangelizzazione, dalle 16.00 i nuovi evangelizzatori si sono radunati nella grande Aula del Vaticano, dove sono stati salutati dall'Arcivescovo Rino Fisichella, Presidente del dicastero vaticano, e hanno seguito alcune testimonianze per la Nuova Evangelizzazione, la presentazione del progetto Aleteia e un concerto del tenore Andrea Bocelli.

Alle 18.30 il Papa ha fatto il suo ingresso accolto dall'ovazione dei presenti, che scandivano il suo nome e sventolavano bandiere e fazzoletti delle comunità di appartenenza.
Il Pontefice, visibilmente felice, si è rivolto a quanti si impegnano “nel non facile compito della nuova evangelizzazione” sottolineando che il tema scelto per l'incontro richiama l'affermazione dell'evangelista Luca “la Parola di Dio cresceva e si diffondeva” (cfr At 6,7; 12,24).
“Voi avete modificato il tempo dei due verbi per evidenziare un aspetto importante della fede – ha sottolineato –: la certezza consapevole che la Parola di Dio è sempre viva, in ogni momento della storia, fino ai nostri giorni, perché la Chiesa la attualizza attraverso la sua fedele trasmissione, la celebrazione dei Sacramenti e la testimonianza dei credenti”.
Per questo, ha aggiunto, “la nostra storia è in piena continuità con quella della prima Comunità cristiana, vive dalla stessa linfa vitale”.
Come allora, ha indicato, anche oggi la Parola di Dio “può incontrare chiusura e rifiuto, modi di pensare e di vivere che sono lontani dalla ricerca di Dio e della verità”.
“L’uomo contemporaneo è spesso confuso e non riesce a trovare risposta a tanti interrogativi che agitano la sua mente in riferimento al senso della vita e alle questioni che albergano nel profondo del suo cuore”.
Malgrado ciò, “non può eludere queste domande che toccano il significato di sé e della realtà, non può vivere in una sola dimensione”, anche se, “non di rado, viene allontanato dalla ricerca dell’essenziale nella vita, mentre gli viene proposta una felicità effimera, che accontenta per un momento, ma lascia, ben presto, tristezza e insoddisfazione”.

Tre motivi
“Eppure, nonostante questa condizione dell’uomo contemporaneo, possiamo ancora affermare con certezza, come agli inizi del Cristianesimo, che la Parola di Dio continua a crescere e a diffondersi”, ha riconosciuto il Pontefice. “Perché?”.
A suo avviso, ci sono “almeno tre motivi”, iniziando dal fatto che “la forza della Parola non dipende anzitutto dalla nostra azione, dai nostri mezzi, dal nostro 'fare', ma da Dio, che nasconde la sua potenza sotto i segni della debolezza, che si rende presente nella brezza leggera del mattino, che si rivela sul legno della Croce”.
“Dobbiamo sempre credere nell’umile potenza della Parola di Dio e lasciare che Dio agisca!”, ha esclamato il Papa.
Il secondo motivo, ha proseguito, “è perché il seme della Parola, come narra la parabola evangelica del Seminatore, cade anche oggi ancora in un terreno buono che la accoglie e produce frutto”.
“I nuovi evangelizzatori sono parte di questo campo che consente al Vangelo di crescere in abbondanza e di trasformare la propria vita e quella di altri”, perché “nel mondo, anche se il male fa più rumore, continua ad esserci il terreno buono”.
Il terzo motivo è poi il fatto che “l’annuncio del Vangelo è veramente giunto fino ai confini del mondo e, anche in mezzo a indifferenza, incomprensione e persecuzione, molti continuano anche oggi, con coraggio, ad aprire il cuore e la mente per accogliere l’invito di Cristo ad incontrarLo e diventare suoi discepoli”.

Annuncio
Tutto questo, ha osservato, “se da una parte porta consolazione e speranza perché mostra l’incessante fermento missionario che anima la Chiesa”, “dall’altra deve riempire tutti di un rinnovato senso di responsabilità verso la Parola di Dio e la diffusione del Vangelo”.
In tal senso, il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, istituito da Benedetto XVI nel settembre 2010, “è uno strumento prezioso per identificare le grandi questioni che si agitano nei diversi settori della società e della cultura contemporanea” ed è “chiamato ad offrire un aiuto particolare alla Chiesa nella sua missione soprattutto all’interno di quei Paesi di antica tradizione cristiana che sembrano diventati indifferenti, se non addirittura ostili alla Parola di Dio”.
“Il mondo di oggi ha bisogno di persone che annuncino e testimonino che è Cristo ad insegnarci l’arte di vivere, la strada della vera felicità, perché è Lui stesso la strada della vita; persone che tengano prima di tutto esse stesse lo sguardo fisso su Gesù, il Figlio di Dio: la parola dell’annuncio deve essere sempre immersa in un rapporto intenso con Lui, in un’intensa vita di preghiera”.
“Il mondo di oggi ha bisogno di persone che parlino a Dio, per poter parlare di Dio”.
Il Papa si è detto “convinto che i nuovi evangelizzatori si moltiplicheranno sempre di più per dare vita a una vera trasformazione di cui il mondo di oggi ha bisogno”. “Solo attraverso uomini e donne plasmati dalla presenza di Dio, la Parola di Dio continuerà il suo cammino nel mondo portando i suoi frutti”.
“Siate segni di speranza, capaci di guardare al futuro con la certezza che proviene dal Signore Gesù, il quale ha vinto la morte e ci ha donato la vita eterna”, ha esortato i presenti. “Comunicate a tutti la gioia della fede con l’entusiasmo che proviene dall’essere mossi dallo Spirito Santo, perché Lui rende nuove tutte le cose, confidando nella promessa fatta da Gesù alla Chiesa: 'Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo' (Mt 28,20)”.
“Essere evangelizzatori – ha avvertito – non è un privilegio, ma un impegno che proviene dalla fede”.

21 September, 2011

S E Cardinale Carlo Caffarra, La responsabilità dell’educatore
di - Sua Eminenza Cardinale Carlo Caffarra.


Non penso sia inutile, prima di addentraci nel tema, richiamare alcuni elementi costitutivi della responsabilità.

La persona umana non è solo causa delle sue azioni; ne è anche e soprattutto l’autore. La causalità avviene anche nel mondo fisico: il calore causa la dilatazione del metallo. Non solo, ma la sorgente del calore è a sua volta causata, e così via. In nessun punto della catena causa-effetto c’è un punto che possa qualificarsi come inizio.

L’inizio si dà solo quando la persona decide di agire, e dice: "io decido di…; io voglio ...". Certamente ci possono essere motivazioni per decidere di scegliere, ma esse non sono l’autore dell’azione.

L’intima natura della responsabilità sta precisamente in questo: di questa azione io sono l’autore; il che equivale: di questa azione io sono responsabile.

Anche l’educatore è responsabile di un’azione: quella di educare un’altra persona. Se esiste – ed esiste – una responsabilità dell’educatore, essa ha precisamente il seguente significato fondamentale: io educatore, in quanto pongo in essere un processo educativo, ne sono responsabile.

Da queste semplici riflessioni siamo già introdotti pienamente nel nostro tema.

1. L’agire educativo pone l’educatore in rapporto con un’altra persona umana: la persona che chiede, che deve essere educata. Dunque, l’educatore è responsabile, nel modo che vedremo, di una persona umana.

Ma consentitemi ora una parentesi, nella quale vorrei svolgere brevemente una riflessione di carattere generale.

Nessuno di noi vive dentro una casa senza porte e senza finestre: vive nel mondo; vive dentro una società di persone. Chiamiamo tutto questo in cui viviamo con il nome di realtà. Facciamoci una domanda: come devo pormi in rapporto con la realtà? La risposta più ragionevole è che il rapporto deve essere misurato sulla realtà, adeguato alla sua natura, al suo valore, al suo senso. Quando l’uomo invece dimentica questo e prevale in lui l’istinto del dominio e del consumo distrugge la realtà. La realtà quindi è affidata all’uomo: egli ne è il responsabile.

Ritorniamo ora al nostro tema. La responsabilità che l’educatore ha di una persona esige che egli si ponga in modo giusto nei suoi confronti; in modo giusto, cioè adeguato alla sua natura di persona umana, commisurato alla sua dignità e valore.

Abbiamo così già individuato due significati fondamentali della responsabilità dell’educatore. Egli è autore della sua azione educativa, e quindi ne risponde. Egli è collocato dalla sua azione in relazione con una persona umana, e quindi ne è responsabile.

Arrivati a questo punto della nostra riflessione la domanda che sorge in noi è la seguente: di quale azione l’educatore è autore e responsabile? Cioè: con quale azione egli deve porsi in relazione con la persona da educare?

2. La risposta a queste domande esige da noi che descriviamo l’azione educativa come tale.

So bene che entro in un campo in cui esistono tante dottrine, anche fra loro contrarie. Ma non voglio addentrarmi in discussioni dottrinarie. Non è nemmeno la mia competenza. Procederò in maniera molto più semplice, cercando di essere il più aderente possibile all’esperienza.

E partiamo da una domanda: di che cosa ha bisogno l’uomo per crescere nella sua umanità? È questa una domanda … trasversale: è secondario che si tratti del bambino nella scuola dell’infanzia o del giovane liceale.

Il bisogno dell’uomo ha un contenuto molto vasto e variegato, conformemente alla multidimensionalità della persona umana.

Ha bisogno che le venga insegnato a custodire, difendere, nutrire la sua vita biologica: esiste un ambito di bisogni che sono dell’uomo in quanto essere vivente.

Ha bisogno che le venga insegnato non solo a vivere, ma a con-vivere poiché la persona umana è costituzionalmente sociale. Nell’ambito di questo bisogno, entriamo in un modo di essere che rivela l’originalità della persona: il concetto e l’esperienza di regola; il rapporto con l’altro [estraneo? nemico? prossimo?]. Insomma la società umana è essenzialmente diversa dal branco degli animali, poiché è formata da due grandi categorie spirituali [ignote agli animali]: la giustizia e la carità.

Ha bisogno infine che le venga data risposta al suo bisogno di conoscere la realtà, al suo bisogno di felicità.

In sintesi: la persona umana ha bisogno: a) di vivere: b) di convivere; c) di godere della verità conosciuta.

L’educazione è la guida della persona; è l’aiuto dato alla persona perché cresca al punto da essere essa stessa capace di vivere, di convivere, di conoscere e godere della verità conosciuta. Volendo dire la stessa cosa in termini quasi banali: educare significa equipaggiare la persona di tutto ciò che è necessario per vivere; per convivere; per conoscere e godere della verità conosciuta. Questa è la responsabilità dell’educatore nei confronti della persona che ha da essere educata.

Con ciò è detto tutto sulla responsabilità dell’educatore? Oppure se si ponesse termine ora al nostro discorso, non si tralascerebbe forse di parlare della vera, della più grande responsabilità dell’educatore? La cultura in cui viviamo – dirò dopo il perché – rende estremamente difficile la risposta.

Parto da una constatazione storica e da un’esemplificazione … grammaticale. La constatazione storica. È esistito l’uomo greco e di conseguenza una paideia greca; è esistito l’uomo romano e di conseguenza la institutio romana; è esistito l’uomo rinascimentale e di conseguenza una coerente educazione.

L’esemplificazione grammaticale.

Esiste un paradigma dei verbi in base al quale viene coniugato qualsiasi verbo. L’uomo greco, l’uomo romano, l’uomo rinascimentale avevano gli stessi bisogni di cui ho parlato prima: da questo punto di vista non erano fra loro diversi. Tuttavia questi stessi bisogni erano pensati e vissuti secondo un "paradigma antropologico" ben diverso in ciascuna delle tre esemplificazioni suddette. Se cambia il "paradigma antropologico", cambia il modo di pensare e vivere i fondamentali bisogni umani.

Per "paradigma antropologico" intendo un’immagine dell’uomo, una "forma viva" [R. Guardini] di uomo ritenuto il vero uomo. Non è semplicemente una dottrina sull’uomo: questa viene di conseguenza, dopo. La dottrina è sempre astratta e non tocca il cuore.

Sono finalmente arrivato al cuore della responsabilità dell’educatore. Egli è responsabile di fronte alla persona da educare, di condurla alla realizzazione di sé secondo la [immagine della] vera umanità. Detto in altri termini: o l’educatore plasma chi gli è affidato secondo quella forma viva di uomo che ritiene vera o non è un educatore responsabile. Egli non risponderebbe al bisogno più profondo di chi gli è affidato: il bisogno di essere vero uomo; il bisogno di vivere una vita buona; il bisogno di vivere felicemente.

Il dramma attuale dell’educazione — lo chiamiamo "emergenza educativa" — è che non esiste più una tale immagine dell’uomo: l’educatore può trovarsi in un deserto antropologico, e quindi accontentarsi di rimanere dentro ai bisogni. O come si dice oggi: l’educazione è il know-how; è equipaggiare l’uomo degli strumenti per vivere, senza preoccuparsi di trasmettere un progetto di vita, ritenuto veramente buono.

Anzi, durante questi ultimi decenni è stata delegittimata la concezione della responsabilità dell’educatore di mostrare la "forma viva" della vera umanità. La delegittimazione si è esibita come più adeguata e al sistema democratico, alla condizione di multiculturalismo in cui viviamo, e al dato di fatto che ci troviamo dentro un conflitto di antropologie.

3. Prima di procedere oltre vorrei però riflettere sul costo che ha una riduzione della responsabilità dell’educatore al semplice know-how; quale prezzo ha esigito e sta esigendo. Lo dico servendomi di una espressione di R. Bodei: il prezzo pagato è la "rottamazione dell’io". Quando dico "io" intendo il nucleo sostanziale spirituale che costituisce il proprium dell’essere personale, la vera scriminante fra l’humanum e il non humanum.

L’io si costituisce, come abbiamo visto all’inizio, nel momento in cui agisce liberamente. In un certo senso, l’io nasce nella scelta libera; è la scelta libera il suo grembo.

Ma l’esercizio della libertà umana coincide concretamente colla scelta; potremmo dire colla libertà di scelta. Essa – ce ne accorgiamo subito se facciamo un po’ di attenzione a se stessi – presuppone sempre un giudizio circa la bontà di ciò che sto scegliendo. La libertà implica sempre un riferimento alla verità.

Ma c’è qualcosa di più profondo. Ogni scelta in fondo è radicata in un desiderio naturale, che precede cioè ogni scelta perché ne è la condizione di possibilità: il desiderio di beatitudine, di una pienezza di essere nella quale la "ferita del cuore" è definitivamente sanata. Ultimamente, ogni scelta è fatta o non fatta a seconda che si ritenga essere o non essere risposta a quel desiderio. Di ciò siamo particolarmente consapevoli quando si tratta di fare la scelta del proprio stato di vita, per esempio.

Se è però vero che siamo come fili d’erba assetati di felicità; se è vero che ciò a cui tende la nostra volontà come al suo fine ultimo è la felicità, la determinazione del bene che si ritiene essere in grado di spegnere la nostra sete, dipende dalla decisione di ciascuno, di ogni singolo. Ed è in questo che l’uomo diventa artefice del suo destino, diventa in senso totale un io. La libertà, nel senso più profondo, è la capacità che ha l’io di disporre di se stesso in ordine a quel bene o valore che ritiene essere il più importante. Ed è nell’esercizio di questa libertà, che la persona umana ha bisogno, cerca di essere illuminata, orientata.

La vita si decide nella risposta che la libertà decide di dare alla verità ultima circa se stesso, circa la realtà nella sua interezza.

Il rifiuto da parte dell’educatore nel proporre una visione, una immagine viva dell’uomo nella sua integralità, impedisce alla persona di attingere alla vera ricchezza della sua umanità: il suo io. Se limito la proposta educativa ad un know-how, ad un "equipaggiamento tecnico", lasciando fuori la ragione e lo scopo per cui ho da mettere in atto la capacità acquisita, escludo dal rapporto educativo la persona in ciò che ha di più profondo. E, di conseguenza, nel momento in cui — al termine del rapporto educativo — lascio la persona che mi era stata affidata, l’abbandono in una sorte di "terra di nessuno [le leggi bronzee dell’economia, la volontà di potenza, il regno dell’Es e della libido] in cui l’io appare come fantasma dominato da forze primordiali" [M. Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca ed., Castel Bolognese 2006, 38].

Ho spiegato, spero, in che senso parlo di "rottamazione dell’io", come prezzo da pagare a chi sostiene e pratica un’azione educativa che nega la responsabilità dell’educatore a trasmettere una immagine, una forma viva di uomo autentico.

Siamo così giunti all’affermazione più grande circa la responsabilità dell’educatore: l’educatore è responsabile della nascita di un io, di una persona. Cioè di quanto esiste di più grande nell’universo. Del resto, da secoli la tradizione cristiana definisce l’educazione come una continuata generazione, a iniziare da san Paolo.

4. Quanto detto però sembra contraddittorio: come si genera un io nella libertà proponendogli una visione della realtà che è propria di chi lo educa? Non è meglio che la responsabilità dell’educatore si limiti entro i confini della trasmissione del sapere; del sapere come vivere e come convivere? Concretamente: a trasmettere semplici regole di comportamento, regole quanto più formali, prive di contenuto.

La difficoltà oggi non infrequente è una delle radici più importanti del malessere educativo che stiamo attraversando. Essa è una conseguenza di un grave errore antropologico: pensare che il rapporto fra libertà ed appartenenza sia di proporzione inversa. Più libertà se minore è l’appartenenza, fino a pensare che la persona libera è la persona che non appartiene a nessuno.

Naturalmente non sono negati – e come potrebbero esserlo? – l’appartenenza familiare, nazionale, storica, culturale. Tuttavia sono considerate semplici passaggi psicologici ed emotivi verso la vera libertà intesa come pura auto-determinazione. Non posso ora fermarmi a riflettere lungamente su questa tematica, mi limito ad alcune osservazioni maggiormente attinenti al nostro tema.

La scelta della libertà non nasce dal niente: dal niente non nasce niente. Nasce dal confronto fra la proposta di vita [che si fonda su una visione del mondo] fatta dall’educatore, e la soggettività della persona che si va sviluppando, che si ha da educare. L’atto educativo non fa nascere un io libero perché non propone nulla, ma perché propone in modo che chi riceve abbia un terreno su cui porsi ed un referente con cui confrontarsi, un’ipotesi interpretativa della realtà da verificare. E qui tocchiamo il fondo della questione: la fiducia nella ragione.

Se partiamo dal presupposto che non esista una verità circa il bene della persona; che non esiste nell’uomo un desiderio innato di "sapere come stanno le cose", ma solo di cercare il proprio bene privato e individuale, essendo ogni proposta di vita un’opinione al servizio della felicità di chi la propone, che diritto ha l’educatore di proporre all’educando la propria visione del mondo?

Lasciamo per un momento l’ambito della riflessione educativa per una considerazione più generale.

Se partiamo dalla certezza che esiste una verità circa il bene della persona; che esiste di conseguenza un bene comune fra le persone, l’eventuale controversia sulle ragioni di convinzioni anche opposte, non diventa mai una controversia fra rivali. Diviene un incontro fra alleati nella ricerca comune della verità.

Se, al contrario, sono convinto che abbia ragione D. Hume quando scrive che non siamo capaci di fare un passo oltre se stessi, delle due l’una. O si impone colla forza il proprio punto di vista [non necessariamente la forza fisica]; o ciascuno vive in un’insuperabile estraneità all’altro.

Il relativismo è l’ospite più inquietante ed ingombrante nella dimora dell’educatore, perché genera degli a-polidi non solo e non principalmente in senso politico.

Ed allora? C’è un fatto originario che contesta la deriva relativista dell’educazione. Esso è narrato in un verso virgiliano stupendo. Rivolgendosi ad un neonato, il poeta gli dice: "incipe, parve puer, risu cognoscere matrem". Il bambino entra in un territorio che non conosce, nell’universo dell’essere che ignora. Le domande fondamentali che ha dentro sono due: "che cosa è ciò che è?" [domanda di verità]; "ciò che è, mi è ostile o benevolente?" [domanda di bene]. Egli ha la risposta nel modo con cui la madre gli sorride, cioè lo accoglie. L’essere, il mondo è disponibile ad accogliermi: la verità dell’essere è il bene [Benedetto XVI continua a ripeterlo: la realtà è abitata dal Logos; il Logos è Agape]. Quando questo incontro originario con la realtà non accade, sappiamo bene quali conseguenze devastanti ha su tutta la vita della persona. E pensiamo ai bambini buttati nei cassonetti; pensiamo ai bambini rifiutati.

Un volto indifferente, il volto della sfinge non fa nascere un io libero: "… risu cognoscere matrem".

Siamo così giunti a scoprire una dimensione drammatica della responsabilità dell’educatore: l’educatore è responsabile, è custode della verità dell’essere e della verità circa il bene della persona. È responsabile della nascita di un io, non semplicemente libero, ma veramente libero perché liberamente vero.

5. Dobbiamo ora infine ma non dammeno chiederci quale è la modalità attraverso la quale l’educatore propone la sua visione del mondo, la sua proposta di vita.

Tutti, penso, siamo convinti che non si può ridurre l’educazione all’istruzione. All’educatore vero interessa soprattutto non che l’educando apprenda qualcosa, ma diventi qualcuno. In che modo?

Fondamentalmente se il "qualcuno" che gli è proposto di diventare, è incarnato, ha preso corpo nell’educatore, e in modo affascinante. La modalità propria del rapporto educativo è la testimonianza dell’educatore.

La testimonianza non è mero insegnamento, il quale come tale si rivolge all’intelletto. La testimonianza tocca intimamente la persona: muove l’io verso la sorgente profonda da cui la testimonianza sgorga.

Benché non si riduca ad esso, la testimonianza implica l’esempio. Quando l’educatore contraddice con il suo comportamento ciò che propone, normalmente la sua proposta non ha alcuna forza. Agostino non ha più voluto imparare la lingua greca per tutta la sua vita, per le bastonate che prese dal suo primo insegnante di quella materia.

Ciò non significa che all’educatore non sia permesso sbagliare: è inumano pretendere questo. Ma quando accade, il riconoscere lo sbaglio è profondamente educativo. Il riconoscimento testimonia nei fatti che la verità della proposta fatta è tale da esigere che si prenda posizione a suo favore, anche contro se stesso. Questo può causare un fascino assai profondo sull’educando.

Abbiamo così scoperto un’altra dimensione della responsabilità dell’educatore: è la responsabilità di testimoniare la verità circa il bene della persona. Socrate è stato il primo grande educatore in Occidente perché ha testimoniato contro il potere la verità circa il bene della persona, fino a subire la morte.

6. Concludo. Siamo andati scoprendo via via le varie dimensioni della responsabilità educativa. L’educatore ha la responsabilità della nascita di un io veramente libero e liberamente vero; ha la responsabilità della custodia della verità circa il bene della persona; ha la responsabilità della testimonianza alla verità circa il bene dell’uomo.

Mi chiedo, per concludere, c’è una sorgente nascosta da cui sgorga continuamente questa responsabilità dell’educatore? In ultima analisi c’è un’esperienza interiore che custodirà sicuramente questa responsabilità contro ogni potere che comunque tenta sempre di privarne l’educatore? Esiste. La descrivo colle parole di Romano Guardini: "A dispetto di tutte le regole tratte dall’esperienza, e degli scopi e degli ordinamenti, egli deve — con il suo intimo atteggiamento — sempre di nuovo ritornare a quella consapevolezza che non si esprime con affermazioni come: "questo bambino qui, in mezzo ad altri cinquanta", bensì dice: "tu, bambino; unico nel tuo essere – di fronte a me" chi non è capace di agire così, è un allevatore di individui utilizzabili dallo Stato; è un addestratore di abili forze economiche – ma non un vero educatore di uomini" [Etica, Morcelliana, Brescia, 2001, 895]. Ed è solo l’amore che fa guardare l’altro come "unico nel suo essere": "l’educazione è un affare del cuore" [S. Giovanni Bosco].









Sede Nazionale via Breda 18 Castel Mella (BS) Tel. 030 2583972

Aggiungi ai preferitiAggiungi questo sito ai preferiti

Webmaster: cogio

Le foto non di proprietà di FNC sono state reperite in rete, se qualcuna di queste dovesse essere coperta da diritti d'autore, siete pregati di segnalarcelo. Provvederemo a rimuoverle.